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I Tesori culinari dell’Irpinia

I Tesori culinari dell’Irpinia

I cibi, bevande e liquori principali:

  • L’Anthemis
  • Le castagne del prete.
  • Lo zenzifero di Quaglietta.
  • Le cannazze tipiche del paese di Calitri.
  • Laene e fasuli,
  • Il Fagiolo Quarantino di Volturara Irpina.

L’Anthemis:

L’Anthemis, elisir dei padri Benedettini di Montevergine, incanta i sensi con il suo inconfondibile sapore, frutto di una sapiente miscela di erbe provenienti dalle maestose montagne del Partenio e da altre regioni d’Italia. Questo straordinario distillato inizia il suo viaggio con la raccolta meticolosa di una ventina di erbe, tra cui spicca l’artemisia, la regina di questa sinfonia aromatica. La sua lavorazione inizia nell’antica e pluridecorata fabbrica di liquori dell’Abbazia, dove antichi attrezzi artigianali si mescolano armoniosamente con macchinari contemporanei, unendo con successo tradizione e innovazione. Dopo il delicato processo di essiccazione e infusione, il liquore riposa per un periodo di 20/30 giorni, avvolgendosi nelle essenze naturali che conferiscono profondità e complessità al suo carattere. La fase successiva, la distillazione, è un rituale che esalta ulteriormente la purezza delle erbe selezionate. L’Anthemis riposa nelle botti per almeno 9 mesi, permettendo agli elementi di fondersi con il giusto equilibrio. Al termine di questo lungo processo, con una gradazione alcolica imponente di 42 gradi, l’elisir apparirà così forte e avvolgente.

Le castagne del prete:

Le castagne del prete sono un prodotto tipico delle feste natalizie; anticamente venivano preparate solamente in Irpinia, nell’Avellinese, zona nota per la coltivazione castanicola, utilizzando i forni presenti nelle abitazioni rurali. Oggi sono conosciute anche nel resto della Campania, ma la loro tecnica di produzione è rimasta invariata: in locali detti “gratali”, le castagne fresche ancora con il guscio, vengono disposte su graticci di legno, al di sotto dei quali si accendono i fuochi alimentati da legna di castagno. Il fuoco deve essere lasciato acceso per 15 giorni, in modo tale da fare seccare completamente le castagne, che dopo vanno tostate in forno per 30 minuti circa. A questo punto, per farle insaporire e reidratare, vengono immerse in cassoni di plastica pieni di acqua o di acqua e vino. Si dicono castagne “infornate” o “nvornate”, quando vengono sgusciate prima di essere poste sul fuoco. Quando, invece, le castagne sono caratterizzate da un’alta percentuale di umidità, nonostante la permanenza sui graticci, rimangono “mosce” e, una volta tolte dal fuoco, vengono infilate ad uno spago, a mo di rosario ed appese in attesa di essere consumate.

Lo Zenzifero di Quaglietta:

Nell’incantevole borgo di Quaglietta (frazione di Calabritto), tra boschi, colline e case in pietra, si coltiva in ogni orto un prodotto rappresentativo di storia, identità e tradizione locale. Parliamo di quella pianta aromatica identificata nel gergo locale come “zenzifero”. Appartenente alla grande famiglia della menta e rinominata “la regina delle mentucce”, lo zenzifero presenta un profumo decisamente intenso e ha un ruolo chiave – grazie alle sue foglie tenere tagliuzzate – nell’aromatizzare e rendere uniche alcune eccellenze locali tra cui spiccano i ravioli (Prodotto Agroalimentare Tradizionale).
Privilegiando zone umide, fresche e ombreggiate, lo zenzifero, fiorente a inizio estate, cresce vigorosamente grazie all’apporto dell’acqua, che nell’area in questione è elemento caratteristico per via della presenza del Fiume Sele. ra i primi piatti, quello di riferimento è indubbiamente rappresentato dai ravioli allo zenzifero. Parliamo di un’autentica eccellenza.

Le Cannazze:

Già le cronache locali del ‘700 riportavano le descrizioni di un tipo di pasta lunga e tubolare, che veniva messa ad essiccare sulle canne. Per questo si chiamano “cannazze”. A Calitri, gli sposalizi sono una festa che può durare giorni; non a caso, Vinicio Capossela (originario del paese) , da diversi anni, organizza un evento denominato “SponzFest”, ovvero la festa degli sposi e degli sposalizi (“sponzare”, nei dialetti del profondo sud, significa “spugnare”; infatti, si “sponzano” le friselle e il baccalà ; un uomo e una donna, invece, unendosi in matrimonio, si predispongono a “spugnarsi”, ovvero a “sponzarsi” reciprocamente!). Ovviamente, il piatto principe di una festa degli sposi, non può essere che quello composto dai “maccheroni della zita” (la “zita”, nei dialetti meridionali, è la sposa), ovvero gli ziti (anche lo sposo è uno zito), ovvero quella pasta che in dialetto calitrano è denominata “cannazze”.

Laene e fasuli:

Tra i sapori autentici dell’Irpinia, ritroviamo una specialità gastronomica ricca di gusto: laene e fasuli, ovvero “lagane e fagioli”. Una ricetta antica, parte dell’immenso patrimonio agroalimentare pervenutoci in eredità dalla longeva storia della nostra terra. È tempo ora di riscoprire insieme questo “antico sapore”. La lagana è una pasta all’uovo: può essere definita come l’antenato della tagliatella. Per la sua forma larga e sottilissima è stata chiamata laena, termine che, in latino, si traduce con “mantello“, a cui verosimilmente somiglia. Bisogna preparare l’impasto per le laene, unendo la farina con le uova e aggiungendo un pizzico di sale. Dopo averlo lasciato riposare per circa un’ora, si procede con la stesura della pasta col laenaturo, ovvero il classico mattarello di legno. La pasta deve essere tirata fino a renderla sottile come un mantello. Dopo aver fatto riposare ancora una volta l’impasto, si procede a tagliare la sottile sfoglia a strisce più o meno larghe ed è così che le laene della tradizione sono pronte per essere calate nell’acqua salata. La cottura è molto veloce, il segnale della cottura della pasta è la risalita in superficie dopo averla calata.
Nel frattempo, si preparano i fagioli e un soffritto fatto con carote, sedano, cipolla e un pizzico di passata di pomodoro. Dopo aver sbollentato i fagioli, si scolano dalla propria acqua e si aggiungono al soffritto.

Il fagiolo quarantino di Volturara Irpina:

Nei terreni dell’altopiano irpino, ai piedi del monte Terminio, si coltiva un fagiolo bianco, tenero e leggermente farinoso. Detto anche quarantino per la durata del suo ciclo di maturazione il fagiolo di Volturara Irpina è piccolo, irregolare e ha una buccia sottile di color bianco cenere. Si coltiva senza pali o altri sostegni; in passato, spesso, era associato al mais: la pianta del granoturco fungeva da supporto per quella del fagiolo.
Si semina a maggio e si raccoglie a fine agosto o inizio settembre. Nella rotazione colturale si alterna con gli altri prodotti caratteristici dell’Avellinese: grano e patate. In questa zona il clima è freddo e piovoso in certi periodi dell’anno e la nebbia è frequente, per cui non è necessario irrigare. La coltivazione è completamente manuale, non si usano fertilizzanti e non è previsto il diserbo chimico per eliminare le erbe infestanti. Una volta raccolti, i baccelli, lunghi circa 15 cm e contenenti circa dieci fagioli l’uno – sono battuti con un bastone o con il “muillo”, uno strumento composto da un bastone lungo e robusto cui è collegato, tramite legacci resistenti, un bastone più corto che serve per battere i baccelli secchi e far uscire i fagioli. Dopo la battitura si fa la cernita con il “chiurnicchio”, un setaccio rotondo che lascia cadere i residui pesanti. Lanciando in aria i fagioli dal setaccio, grazie all’azione del vento, si eliminano i residui più leggeri. Infine, i fagioli asciugano al sole per altri 3 giorni.
Tradizionalmente si conservano aggiungendo pepe nero e spicchi di aglio e sono ingrediente di numerose zuppe e minestre della tradizione di Volturara: fasùli e ditalinilaane e fasuli, pasta e fasuli, zuppa rè fasuli scazzuoppoli (pezzi di impasto fritto) e zuppa di fagioli e patate.

 

Lavoro di E.G., clase 2° sez. B

Silvia De Simone
Silvia De Simone
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