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L’AMORE AI TEMPI DELLA GRANDE GUERRA

L’AMORE AI TEMPI DELLA GRANDE GUERRA

LETTERA IMMAGINARIA DI GIOVANNI PALATUCCI ALLA
FIDANZATA, L’EBREA MARIA EISLER ISPIRATA AI FATTI DELLA
SUA VITA REALMENTE ACCADUTI.
Dachau, 1 febbraio 1945
Attraverso le sbarre della finestra, mia cara Maria, vedo il campo in
fermento: i tedeschi sono particolarmente nervosi, oggi; strattonano donne
e bambini come bestie trascinandoli da una parte all’altra del lungo cortile
circondato da filo spinato. Forse sanno che stanno per perdere la guerra,
penso, magari illudendomi. Da quando sono stato internato qui non ho
alcuna notizia del mondo esterno e ti scrivo queste lettere perché mi aiutano
a sentirti vicina, mia amata, sperando un giorno di riuscire a consegnartele.
Il pensiero di te e del nostro amore mi tiene in vita e mi dà la forza di andare
avanti; anche se sono particolarmente debole, oggi: non ero buono per
lavorare e mi hanno “concesso” di rimanere in camerata. Devo rimettermi
in forze, perché queste non sono concessioni che sono possibili a lungo, se
non produco mi manderanno a fare la doccia. Ormai tutti lo sanno, qui, che
da quelle docce non si esce vivi.
È una giornata buia, grigia, come tutte da quando sono a Dachau: sembra
che anche il cielo si intristisca ad assistere alla brutalità di cui sono capaci
gli uomini. E così, tra il cielo grigio e le grida dei soldati tedeschi, mi lascio
andare ai ricordi in cerca di conforto. Oggi ho ripensato a tutti gli eventi che
mi hanno portato su questo freddo e spoglio lettino pieno di pulci e sai cosa
mi dicevo, mia cara Maria? Che rifarei tutto, che non mi pento di nulla, che
se la mia sola vita è servita a salvarne tante altre, ne è valsa la pena. È
matematica, questa: una sola vita rispetto a centinaia di migliaia. Ero bravo
al liceo classico in matematica, ma ancora di più mi piacevano il latino e il
greco. Avevo frequentato a Pietradefusi il Ginnasio e a Benevento il Liceo,
la licenza a Salerno e infine Torino, dove mi ero laureato in Giurisprudenza.
Dopo tanti anni di studio finalmente ero riuscito a coronare il mio sogno:
entrare in polizia. Ero stato nominato, a 27 anni, vice commissario di
pubblica sicurezza a Genova. Il mio amato padre mi voleva avvocato in
Irpinia, con lui, ma io gli risposi che “Mi è impossibile domandare soldi per
chi ha bisogno del mio patrocinio per avere giustizia”. Detestavo le
ingiustizie, sin da quando ero bambino. È per questo che avevo lasciato le
mie verdi montagne e quei tramonti, ah, quei tramonti, che al solo ricordo
mi riscaldano ancora oggi il cuore. Quella sfera rosso fuoco che si perde tra
le montagne tingendo dei suoi colori pastello tutte le cime dell’Appennino
campano dove si stende la mia Montella.
Avevo realizzato il mio sogno soltanto da un anno ma, proprio per amore di
verità, ebbi i primi problemi in polizia e fui trasferito da Genova a Fiume,
città che apparteneva al Regno d’Italia soltanto da tredici anni. Città
difficile, posta al confine con la Jugoslavia, città contesa, che il Prefetto
Piazza, nel mio primo giorno a Fiume, definì un posto di confine con i
barbari, come il fiume Reno tra barbari e romani. Ricordo ancora la faccia
che fece, Piazza, fascista convinto, quando gli risposi che i romani
consideravano terra di barbari proprio la Germania, quella Germania a cui
adesso l’Italia si sottometteva approvando le leggi razziali contro gli ebrei.
Come responsabile dell’Ufficio stranieri di Fiume dovetti infatti occuparmi
di indagare, partendo dagli elenchi degli uffici anagrafe, quali, tra i cittadini
italiani che vivevano a Fiume, dovevano essere ebrei. Uno di questi, il signor
Khon, era proprietario della Caffetteria dove facevo la colazione ogni
mattina prima di recarmi in Questura. Cominciavano in quegli anni le prime
persecuzioni: il suo locale fu derubato e incendiato; quell’uomo bonario e
che aveva anche giurato fedeltà al Fascismo, era distrutto. Fu piangendo che
mi disse di aver riconosciuto un camerata fascista tra gli incendiari. La sera
stessa feci in modo di incontrare quel fascista e gli feci capire prendendolo
per il collo che avrebbe fatto i conti personalmente con me se si fosse
comportato da farabutto in quel modo. Non le sopportavo proprio, no, le
ingiustizie. Ma fu quando venne a chiedere il rinnovo del suo passaporto
una cittadina austriaca, la signora Schwartz, che ebbi l’occasione di fare
qualcosa in più: riuscii a rinnovarle il passaporto pur non essendo cittadina
italiana. Dopo la Signora Schwartz ne arrivarono tanti, tanti di più: all’inizio
centinaia, poi migliaia, non li ho mai contati. Centinaia di migliaia di
profughi ebrei provenienti da Slovacchia, Croazia, Austria, Boemia. Ormai,
quando i miei uomini li stanavano a Fiume, già sapevano cosa fare: li
portavano in questura, da me. Se avevano parenti in Italia li spedivamo dai
parenti oppure li mandavamo “in villeggiatura” in Italia: eravamo noi della
questura a stampare i permessi, potevamo farlo e non potevo non farlo, no,
anche se era rischioso, per me, visto che superavamo di gran lunga la quota
di permessi prevista e questo cominciava a destare sospetti nel Prefetto.
Quante difficoltà, ricordo, quando arrivarono dalla Polonia 800 ebrei già
organizzati per imbarcarsi da Fiume per la Palestina: il Prefetto Piazza mi
impose di allontanarli da Fiume, anche con la forza, in una settimana e gli
rigirai la frittata dicendo che lo avrei fatto, li avrei allontanati, via nave!
Quando la nave arrivò, però, la nostra Marina non voleva farla partire perché
troppo vecchia e non rispettava le regole per poter viaggiare per mare:
provai a farla rimettere a nuovo ma gli operai del cantiere navale furono
costretti dal Prefetto a non lavorare; così ebbi un duro scontro con lui finché
non riuscii a farla rimettere a nuovo dai miei stessi uomini della polizia, che
lavorarono giorno e notte, compreso il mio caro amico, il Maresciallo
Maione.
In una tua lettera, tempo fa, mi hai scritto che mi consideri un eroe, mia
amata Maria. Non lo sono, no, ho soltanto avuto la possibilità di fare un po’
di bene, come scrissi ai miei amati genitori, e l’ho fatto.
I veri eroi sono stati quegli ebrei che hanno dovuto subire le più terribili
cattiverie che l’uomo abbia mai fatto a un altro uomo, senza aver commesso
assolutamente nulla.
Quando, dopo l’entrata in guerra, ci obbligarono ad arrestare tutti gli ebrei
maschi adulti, anche italiani, che vivevano a Fiume, decisi di fare domanda
di trasferimento a Roma: non ce la facevo più ad assistere a tali barbarie. Fu
col cuore in mano che dovetti arrestare i miei amici, il signor Khon, Isaia,
Giorgio. Ma almeno, pensai, in galera erano protetti. Capii che il mio posto
era ancora lì a Fiume, che rimanendo avrei ancora potuto fare qualcosa per
quelle povere persone. Cominciai a procurami false carte d’identità,
documenti, tutto quanto poteva aiutarmi a trattenere in Italia le centinaia di
ebrei che continuavano ad arrivare a Fiume. Col passaporto italiano
raggiungevano parenti o amici in Italia oppure ancora, se questo non era
possibile, li aiutavo a raggiungere il campo di raccolta di Campagna, presso
il mio amato zio vescovo Giuseppe Maria. Lì, almeno, avrebbero salvato le
loro vite. Talvolta li accompagnavo io stesso, così coglievo l’occasione di
tornare nella mia amata Montella. Non riuscivo a stare troppo a lungo
lontano dal profumo selvaggio dei miei amati boschi di castagne, dal cielo
azzurro nitido della mia Irpinia, un cielo puro e limpido come l’anima dei
miei conterranei. Ricordo ancora quanto ti piacevano le castagne, i funghi,
il formaggio che ti portavo quando tornavo da Montella, mia cara Maria.
La mia vita non fu più la stessa dopo l ’armistizio dell’8 settembre 1943:
con l’occupazione militare tedesca Fiume venne annessa al Terzo Reich e il
comando militare della città passò al capitano delle SS Hoepener e io fui
nominato questore reggente. Quanto sarei stato felice anni addietro, di
questa nomina! Avrei festeggiato con te, portandoti fuori a cena… e invece
fu proprio dopo la caduta del fascismo che la situazione a Fiume diventò
ancora più pericolosa e dovetti guardarmi dalla polizia tedesca, che
cominciava a sospettare di me. Fu allora che il mio caro amico Carlo,
console svizzero a Trieste, mi propose di rifugiarmi in Svizzera. Ma non
potevo abbandonare gli italiani fiumani e gli ebrei proprio allora. Fu così
che riuscii a far scappare almeno te in Svizzera, mia cara Maria, dove spero
di poterti riabbracciare un giorno.
Subito dopo la tua fuga, mia amata, chiesi all’ anagrafe di Fiume di rilasciare
certificati ai nazisti solo dopo mia autorizzazione, cosi riuscii a sventare le
loro razzie. Ma l’ SS Hoepener mangiò la foglia e i tedeschi perquisirono
casa mia. Trovarono la lettera dei partigiani italiani sul progetto, di cui ti
parlai, della creazione di uno Stato libero di Fiume; sono ancora convinto,
infatti, che per quella città divisa al suo interno tra slavi e italiani, la
soluzione sia questa, essere né jugoslava né italiana. Avrei dovuto far avere
la lettera a un mio contatto tra gli alleati, ma non feci in tempo: i tedeschi la
trovarono prima. Fui arrestato dalla Gestapo, la polizia segreta nazista.
Sono stato un mese, mia amata, nel carcere di Trieste. Un mese di vessazioni
e umiliazioni, che nulla era rispetto all’orrore che avrei conosciuto in questo
campo di concentramento, dove mi trovo dal 22 ottobre scorso. Tre
mesi….quanti ebrei avrei potuto salvare ancora, in tre mesi…questo
rimpiango, quanti fratelli e sorelle in Cristo! Da quando mi hanno rinchiuso
nel campo di concentramento di Dachau sto conoscendo l’orrore e ora che
ho provato sulla mia pelle quanto dolore avrebbero conosciuto sono ancora
più felice di aver sventato tale misera sventura ai tanti ebrei a cui sono
riuscito a fare, soltanto, “un po’ di bene”.
Ti abbraccio forte, mia cara Maria. Prega per me.

Tuo, sempre, Giovanni

F. III A SSPG TEORA

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Grazia Bonazzi
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