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  GIOVANNI PALATUCCI 

  GIOVANNI PALATUCCI 

Giovanni Palatucci nacque a Montella (Avellino) il 29 maggio 1909, unico maschio dei tre figli di Felice e di Angelina Molinari. La sua famiglia era molto religiosa; due zii paterni, Antonio e Alfonso, furono francescani, un terzo, Giuseppe Maria, divenne vescovo di Campagna (Salerno) il 28 novembre 1937. L’ambiente familiare influenzò il suo animo, inculcandogli abnegazione e amore per il prossimo. Compì i primi studi a Montella e li proseguì al ginnasio Dionisio Pascucci a Dentecane, frazione di Pietradefusi (Avellino); si iscrisse poi al liceo classico Pietro Giannone di Benevento, ma al termine del primo anno si ritirò a causa di contrasti con i docenti; continuò gli studi privatamente nel collegio Serafico di Ravello (Salerno) e conseguì la maturità da privatista al liceo Torquato Tasso di Salerno il 23 novembre 1928. Si iscrisse al corso di laurea in giurisprudenza all’Università di Napoli, dalla quale si trasferì a quella di Torino allorché, per assolvere il servizio militare, entrò volontario nella scuola allievi ufficiali di complemento a Moncalieri (Torino), che frequentò dal 26 gennaio 1930 al 21 febbraio 1931. Il 16 dicembre 1932 si laureò all’Università di Torino con la tesi “Il rapporto di causalità nel diritto penale”, relatore Eugenio Florian. Dopo il tirocinio presso lo studio dell’avvocato Luigi Mazzoleni di Torino, superò l’esame di procuratore legale, ma anziché intraprendere la carriera forense nei primi mesi del 1936 presentò domanda per entrare in polizia; prese servizio il 3 agosto alla questura di Genova come vicecommissario aggiunto in prova e dal febbraio all’aprile 1937 frequentò il XIV corso presso la Scuola di formazione per funzionari di Pubblica Sicurezza a Roma; a fine corso fu confermato vicecommissario aggiunto e riprese servizio a Genova il 7 maggio. Qui rilasciò un’intervista che il 26 luglio 1937 apparve anonima su un giornale cittadino in cui criticava la polizia, accusandola di burocratismo e di essere lontana dai problemi dei cittadini; l’intervista suscitò scalpore tra i suoi superiori che vennero presto a conoscenza dell’identità dell’autore: fortemente biasimato, rischiò l’espulsione, ma si limitarono a trasferirlo alla questura di Fiume, dove giunse il 15 novembre 1937. La posizione dei cittadini italiani di origine ebraica divenne drammatica nel 1938, a seguito del Manifesto della razza del 15 luglio e delle Leggi razziali del 17 novembre. Essendo un cattolico di profonda fede, rifiutò di farsi complice delle persecuzioni. Non potendo rilasciare documenti con dati reali, fornì visti di transito e passaporti falsi e tentò di impedire la deportazione nei centri di internamento italiani degli ebrei che si trovavano a Fiume, come residenti o in transito. Quando ciò non fu possibile, cercò per lo meno di farli avviare verso la diocesi di suo zio vescovo. Quando, l’8 settembre 1943, i Tedeschi presero possesso di Fiume, le loro forze di polizia avocarono le funzioni della questura, relegando al ruolo di mera esecuzione di ordini la polizia italiana, alla quale furono sequestrati armi, munizioni e automezzi. Gli altri funzionari della polizia di Fiume si fecero allora trasferire presso sedi dislocate nella Repubblica sociale italiana, ma egli preferì restare. Rimasto il più alto in grado, gli vennero affidate le funzioni di vicequestore e poté così continuare a soccorrere i profughi ebrei, sottraendoli anche alla deportazione nei campi allora esistenti in Italia. Violando le Leggi razziali, si esponeva a gravi rischi ma, pur avendone la possibilità, non volle porsi in salvo in Svizzera, come gli fu proposto da un suo amico svizzero: una sua fuga, disse, avrebbe messo in difficoltà i sottoposti che lo avevano aiutato. Col pretesto di una missione da svolgere presso il governo della RSI, accompagnò la sua fidanzata ebrea Mikela Eisler e sua madre al confine con la Svizzera e poi tornò a Fiume. Venuto sempre più in sospetto alle autorità militari tedesche, distrusse gli elenchi degli ebrei in suo possesso, in modo da renderne impossibile l’individuazione e la cattura, finché, nella notte fra il 12 e il 13 settembre 1944 fu arrestato nella sua casa dalla polizia di sicurezza germanica, con l’accusa di collaborazione e intelligenza con il nemico. La pena venne poi commutata nella deportazione e, quaranta giorni dopo l’arresto, il 22 ottobre, entrò nel campo di Dachau con il numero di matricola 117826. Era il 10 febbraio 1945, quando morì per l’epidemia di tifo petecchiale che imperversava nel campo dal dicembre precedente e fu sepolto nella fossa comune sulla collinetta di Leitenberg.

Qualche anno dopo giunsero i riconoscimenti del suo operato, dapprima da parte ebraica, poi anche da parte italiana. Nel 1953, a Ramath Gan, cittadina alle porte di Tel Aviv, alla presenza dei suoi zii paterni Giuseppe Maria e Alfonso, gli fu dedicata una via, la Rechov Hapodim, fiancheggiata da 36 platani, uno per ogni anno della sua vita. Il 17 aprile 1955 gli fu intitolata una foresta nei pressi di Gerusalemme e l’Unione delle comunità israelitiche (oggi ebraiche) italiane gli assegnarono una medaglia d’oro alla memoria. Nel settembre 1990 lo Yad Vashem (Ente nazionale per la memoria dell’olocausto) di Gerusalemme gli riconobbe il titolo di «Giusto tra le Nazioni». Il 19 maggio 1995 il Presidente della Repubblica italiana, Oscar Luigi Scalfaro conferì alla sua memoria una medaglia d’oro al merito civile. Il 9 ottobre 2002 il Tribunale diocesano del Vicariato di Roma aprì il processo canonico di beatificazione del «Servo di Dio Giovanni Palatucci, laico, funzionario della Polizia di Stato, martire in odio della fede», e questo si concluse in tempi rapidissimi il 10 febbraio 2004 e gli atti furono trasmessi alla Congregazione delle cause dei santi per la fase successiva. Nel 2006 furono concesse due medaglie d’oro al merito civile: il 25 settembre alla città di Campagna, il 12 dicembre alla memoria di suo zio vescovo, per la loro azione di assistenza e salvataggio operata con lui. Nel corso di anni gli furono intitolate strade e sedi di commissariato della Polizia di Stato in numerose città d’Italia e il 29 maggio 2009 le Poste italiane emisero un francobollo a suo nome.

La scoperta della sua storia, l’uomo che dalla città di frontiera avrebbe salvato migliaia di ebrei, si deve a Georges de Canino, che ne ha ritrovato un profilo biografico ad opera di Goffredo Raimo e ne ha approfondito le ricerche. Nel 2013, in seguito a una ricerca condotta dal Centro Primo Levi, il “New York Times” ha definito Palatucci un “collaboratore” dei nazisti a Fiume, accendendo una polemica mediatica. Per tale motivo, l’Istituto Yad Vashem di Gerusalemme, che lo aveva dichiarato “Giusto tra le Nazioni”, ha avviato un esame del caso e ha concluso, secondo le parole del professor David Cassuto, che “non c’è nessuna novità, o presunta tale, che giustifichi un processo di revisione del riconoscimento di Giusto fra le nazioni conferitomi il 12 settembre 1990”. Su richiesta “dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane”, il Gruppo di ricerca su Fiume-Palatucci 1938-1945 è stato istituito dalla “Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea” CDEC, con il compito di “Svolgere nuove approfondite ricerche sulla situazione degli ebrei a Fiume/Rijeka nel periodo 1938-1945 e sull’opera di Giovanni Palatucci esaminando la documentazione già nota e ricercandone ulteriore, al fine di definire quanto più possibile le vicende storiche in questione”. Nel 2015, dopo un’intensa attività di ricerca e di dibattito storiografico, l’esperienza si è conclusa senza la produzione di una Relazione finale, a causa della complessità dell’esame delle testimonianze orali concernenti il mio operato, in particolare nel periodo 1943-1944.

“La solidarietà, per definizione, è un atteggiamento di benevolenza e comprensione, si tratta di un modello che tutti dovremmo seguire e bisognerebbe prendere esempio da grandi personaggi che hanno fatto del bene per la società, anche rischiando la loro vita. Un italiano, grande simbolo di solidarietà, fu Giovanni Palatucci: è stato un funzionario dello Stato che ha scelto di stare dalla parte della legge dell’uomo. La sua figura esprime ancora oggi un modello esemplare di sacrificio e altruismo nei confronti del prossimo.” 

-Sitografia: “Dizionario Biografico” Treccani; “Trame di Memoria”.

 

Lavoro svolto da S.P., classe 3° sez. D

Silvia De Simone
Silvia De Simone
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